STAGIONE DELLA VITA


L'INFALLIBILE FILASTROCCA




Non esiste più, la figura dei nonni. Chi ha nipoti, figli di propri figli, è, appare, si crede o vuole sembrare a tutti i costi giovane; ha impegni, partecipa alla vita e vede i nipoti alle feste comandate o quando può. Il ruolo di nonno non s'addice più ad alcuno.

Pur se nonni continuano a lavorare, viaggiare, invitare e ricevere, frequentare amici e conoscenti, trascorrere ore davanti al televisore, leggere, praticare sport o dedicarsi a qualche hobby, frequentare corsi di qualsiasi cosa, curare salute, aspetto e altro ancora.

Non s'ha più tempo o voglia di fare i nonni.

Il modo di vivere attuale preclude tale condizione.

Figli, nipoti e nonni abitavano, in passato, nella stessa casa o nelle immediate vicinanze.

Ciò rendeva automatico, ovvio il ruolo del nonno; la vita era forse più facile.

Oggi nonni e nipoti possono vivere in luoghi lontani anche migliaia di chilometri; se abitano nella stessa città, distanze e traffico automobilistico insieme con gl'impegni del modello esistenziale attuale costituiscono impedimenti oggettivi allo svolgimento del ruolo di nonno.

Pur volendole far trascorrere più tempo possibile con i nonni, soprattutto quand'era bambina, tutto s'è risolto per la propria figlia ad un paio di settimane per anno, e ad anni alterni, una volta coi nonni bavaresi e l'altra con quelli siciliani.
Forse, fra non molto, anche noi leggeremo annunci di giovani coppie in cerca di nonni, sostituti di quelli naturali, per i loro figli.

Dei quattro nonni ho ricordi precisi, nitidi.

Verso la mamma del babbo, tuttavia, l'affetto e la gratitudine sono smisurati.

Dalla nonna presi il nome di battesimo, quasi identico al suo; ero il suo prediletto anche per questo. Ne sono sicuro.

Lei tuttavia, un po' mentendo, diceva ai fratelli, quand'era sola con ciascuno di loro, che ognuno era il suo prediletto. Tutti eravamo felici; io però sapevo benissimo come stavano le cose e la nonna anche.

Con me era particolarmente affettuosa, buona, tollerante, generosa e paziente; avrei potuto fare o farle qualsiasi cosa, m'avrebbe capito, giustificato e perdonato senza farlo minimamente pesare.

Piccolo e già pigro, mi portò in braccio senza lamentare stanchezza per chilometri, quella volta che, a piedi, s'era deciso di raggiungere il nonno nella loro tenuta, distante alcuni chilometri.

Si fermò da noi, abbandonando quasi a se stesso suo marito, per farci da mamma, quando la nostra ci lasciò.

Si trasferì definitivamente da noi quando il nonno morì e dovette sopportare o confrontarsi con la stupidità umana che assumeva il volto della seconda moglie del babbo e, pur raramente, anche quello del babbo stesso.

Da giovane era bellissima: occhi azzurro-verde, capelli biondo-rossiccio, carnagione chiarissima con efelidi sulle guance; sembrava un'irlandese.

Non prendeva il sole; faceva male alla sua pelle.

Mi riempiva d'attenzioni e d'amore e mi dava i quattrini che le chiedevo o forse anche più.

Mi viziava tantissimo; sempre pronta ad esaudire ogni mio pur piccolo desiderio o capriccio.

Noi tutti eravamo la sua vita; le sue uniche frequentazioni all'esterno della nostra famiglia erano la sorella e la chiesa, per il rosario pomeridiano e la messa domenicale.

Le era morto, qualche anno prima, il fratello paralizzato che viveva da lei e di cui si prendeva cura.

La nonna raccontava che suo fratello era stato in marina e che aveva fatto tantissimi viaggi, visitato altri mondi; mostrava qualche oggetto che aveva e che il fratello le aveva portato da quei paesi lontani.

Più che ascoltare quei racconti, sebbene piccolissimo, li vivevo già, partecipavo ed anch'io andavo in terre lontane, per vedere e per realizzare la vita.

Adoravo la nonna ma, ventenne, dimenticai di portarle - come era solito fare quel prozio - un ricordino dal soggiorno parigino.

Lo notò; me lo fece osservare. Mi sento ancora in colpa; quella nonna avrebbe meritato tutti i regali dai più eleganti negozi parigini.

Sbadataggine e superficialità del giovane scapestrato.

La nonna, poi, era la fonte primaria delle certezze della vita del tempo.

Indovinava, in anticipo ed in maniera infallibile, l'esito di qualsivoglia evento; esami, concorsi, risultati delle interrogazioni scolastiche e dei compiti in classe, la promozione o meno alla classe successiva, l'arrivo d'un ospite, il buon o meno buono raccolto del nonno, il verificarsi d'una eventualità sperata e ogni altra questione che le si sottoponeva.

Recitava mentalmente qualcosa come una filastrocca magica, muovendo appena le labbra senza mai far udire le parole; poi restava in attesa d'un segnale; potevano essere le campane della chiesa vicina, l'arrivo d'una automobile veloce in strada, qualcuno che si presentava all'improvviso, un sasso scagliato dai bambini, il passaggio d'un cavallo, altro.
Quindi interpretava e dava il verdetto che, per quanto ricordo, era infallibile.

Le chiesi cento, mille volte d'insegnarmi, di rivelarmi quelle parole che pronunciava mentalmente perché anch'io volevo diventare fonte di certezza.

Malgrado l'affetto, non volle mai farlo, in maniera decisa e sicura, senza esitazioni.

Non rivelò quella formuletta magica né a me né ad alcuno. 

Non so perché lo fece.

Forse, sapeva già che non sarei stato mai fonte di certezza per me stesso o per altri? Non mi ritenne all'altezza?

Ciò malgrado, il suo amore per me era infinito, autentico e ciò mi dava e mi dà forza per affrontare la vita.

S'ammalò e non si mosse più dalla sua stanza e, infine, dal suo letto. Entrai in quella stanza per salutarla e stare un po' con lei. Non mi riconobbe e chiese a chi l'assisteva: chi è quello lì?.

Da quella domanda, che mi rattristò e mi sorprese ad un tempo, mi resi conto che la nonna stava per lasciare il palcoscenico, che non sarebbe ritornata mai più.

Accadde, puntualmente, alcuni giorni dopo.

Anche il papà del babbo ci amava tantissimo ma aveva carattere e personalità diversi da quelli della nonna; pretendeva ubbidienza, sommo rispetto ed era quasi severo; era poco tollerante e paziente.

Gli volevo bene anch'io ma in forma vagamente obbligatoria; trattandosi del nonno paterno, l'affetto era quasi dovuto.
Quand'ero bambino per anni, giorno dopo giorno, ricevetti da lui un piccolo regalo: una primizia, un frutto non comune, un giocattolo di legno costruito dal nonno, una qualsivoglia cosa strana, insolita o curiosa ovvero un dolce fatto dai contadini ed altro ancora.

L'aspettavo di pomeriggio a casa sua, contigua alla nostra, per ritirare la sorpresa quotidiana quando ritornava dal lavoro.
Un pomeriggio, deluso, scoprii che per me non c'era nessun regalo, nessuna sorpresa.

Il nonno si rammaricò, si vedeva dall'espressione del suo volto; era sincero; non aveva potuto occuparsi del regalino preso da altri impegni, come disse.

Mi rammaricai anch'io ma non gliene volli.

Mi resi conto, successivamente, che quella dimenticanza m'aveva aiutato a crescere; aveva concluso la mia prima infanzia.
Con varianti, imitai, anni dopo, quella sequela di regalini con la figlia per interromperla quando ritenni di poterlo fare, cioè, quand'era già un po' cresciuta.

Il nonno m'introdusse, in qualche modo, nella vita sociale e mi portò con sé, da suoi cari amici che ci trattavano come persone di riguardo, e me, addirittura, come un principino.

Mi fece visitare anche le sue proprietà, descrivendomi le singole piante e parlandomi, come ad un adulto, dei problemi di quell'attività.

Ritiratosi dal lavoro, cedette immediatamente i suoi beni a suo figlio - il babbo - ignorando abitudini ed opinioni contrarie d'amici e parenti.

Vedevo raramente i nonni materni, più anziani degli altri, che abitavano in una vicina cittadina; non li amavo molto.
Erano riservati, formali, silenziosi ed avevano, si direbbe oggi, la puzza sotto il naso.

Il nonno era sempre a casa della zia senza figli, seduto sulla stessa sedia, con bastone e fiaschetta di vino antico e di pregio vicini; cominciava a bere, pur piccole quantità, fin dal mattino.

La nonna non lasciava mai la sua grande casa, un bel palazzetto all'inizio del corso della cittadina, per via dei gatti che, letteralmente, viziava; quasi più di quant'avesse fatto con le figlie.

Il nonno voleva che ci rivolgessimo a lui col voi; io insistevo dandogli del tu e una volta mi lanciò il bastone, senza colpirmi; ero già scappato via.

Anche per questo non m'era simpatico.

Rividi questi nonni dopo circa un anno dalla morte della mamma, a casa della solita zia; ora non m'erano affatto antipatici.
Ero più grandicello e loro sembravano fotografie sbiadite di se stessi; più morti che vivi; non compresi che cosa li tenesse ancora in vita.

Dissero pochissime parole, cui non prestai molta attenzione, ma suonavano buone, sincere, affettuose e piene d'amore.
Io capii il loro grande dolore, forse più grande di quello di tutti gli altri.

Qualche mese dopo, quasi contemporaneamente, raggiunsero la più piccola delle loro quattro figlie, che amavano come o, forse, più delle altre.

 

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Quel primo capufficio