VIAGGIARE


VIA DA LA PAZ 



Completata la loro attività, i tre stabilirono data e volo della partenza per l'altro paese latino-americano, dove dovevano pure recarsi. Avevano trascorso a La Paz un periodo splendido; erano leggeri e contenti per tanti motivi ma soprattutto perch'erano giovani; loro lo sono, sempre o quasi, e spesso senza motivo.

L'attività era andata bene; s'erano conosciute persone simpatiche, interessanti e utili anche per il lavoro.

Le ragazze e gli inviti, anche di conoscenti diplomatici, erano stati quasi troppi. Serate indimenticabili e qualche notte da ricordare in dettaglio.

Il terzetto, inseparabile ed affiatato, s'era dato un gran daffare e s'era divertito.

Conciliando con maestria utile, il lavoro, e indispensabile, il divertimento, videro e ammirarono quanto d'obbligo, fecero acquisti e visitarono località note; anche il lago.

Nello stesso giorno, in una delle tante escursioni, raggiunsero il punto più alto della montagna, ad oltre cinque mila metri d'altitudine, per scendere, poi, a meno di due mila metri in una località lussureggiante con clima subtropicale, esattamente l'opposto del primo, con clima alpino e temperature consequenziali. E, infine, il percorso inverso per ritornare a La Paz. La strada era una sola curva, pericolosa e insicura, scendeva giù a picco.

Videro per la prima volta cani affamati, un mucchio d'ossa ricoperto di pelle sottile, affiancarsi e cercare di seguire l'auto sperando d'ottenere qualcosa, rabbiosi e macilenti.

Chi guidava l'auto si rammaricava d'aver dimenticato la busta col pane raffermo. S'incontravano pochi contadini, qualcuno a cavallo.

Tutti col loro fascio di foglie di coca che, masticata lentamente ridava le forze e non faceva sentir la fame.
Alcuni contadini avevano occhi opachi e movimenti troppo lenti per non far pensare a effetti collaterali di quelle foglie.
La sera, antecedente la loro partenza, i tre compagni di avventura furono laconicamente informati che il giorno successivo sarebbe iniziato il coprifuoco; si temeva per un colpo di stato.

Lungo il breve tragitto verso l'albergo, s'era notata un'insolita calma, pochissime automobili che circolavano piano, silenziosamente e tanti uomini, uno a fianco dell'altro, sul marciapiede con la faccia rivolta verso la strada e le spalle verso le pareti dei palazzi.

Non parlavano; stavano fermi, quasi immobili; una sequela di visi scuri, risentiti e incattiviti; qualcuno fumava; muoveva appena la mano e il braccio; nessun altro gesto.

In albergo, consigliarono di partire prestissimo l'indomani anche se il volo era per le dodici.

Si chiese all'amico diplomatico d'inviare la macchina alle sei precise.

Si partì puntualmente il mattino successivo per quella specie di viaggio interminabile, di soli quaranta chilometri.
L'autista che si confermò bravo e diligente portava scritto sul volto olivastro, nel naso e negli altri lineamenti, negli occhi scuri e nei capelli neri, lisci e impastati di grasso la sua appartenenza alle Ande; il fisico lo rivelava ulteriormente: gambe corte ma robuste e un torace largo e appena tozzo quasi per facilitare la respirazione, che a quell'altitudine era difficile per tutti.

La natura aveva provveduto allargando polmoni e toraci degli andini. I tre viaggiatori assumevano regolarmente pillole a base d'ossigeno.

Oltre al quechua, l'autista parlava anche inglese; lavorava da anni per stranieri, come i tre appresero in brevi conversazioni, durante il tragitto, quasi per far passare il tempo.

Si provò inutilmente ogni possibile via, strada, vicolo o passaggio che portasse verso o comunque all'aeroporto; già da lontano si vedevano transenne, militari armati, camionette pronte a intervenire o posteggiate in modo da impedire il passaggio anche d'una sola bicicletta.

Si dovette tornare indietro; l'autista fu quindi autorizzato dal proprietario dell'auto - l'amico diplomatico - a tentare l'ultima possibilità e cercare di raggiungere l'aeroporto attraverso la Via della Luna; senza distruggere l'auto, precisò al suo autista il proprietario dell'auto.

I tre amici non potevano immaginare quanto sarebbe durato quel viaggio e come si sarebbe svolto. La Via era circondata da un paesaggio arido e triste, senza nemmeno un piccolo cactus; l'erba, anche un filino, si sarebbe rifiutata di vegetare e crescere in quel suolo. La stessa luce sembrava falsa e ingannevole, più che artificiale, gas di altri pianeti.

La terra, d'un giallo grigiastro, quasi incolore ovvero sporco naturalmente in altre parti o mista ad una specie di sabbia, sassi e immondi detriti; con buche, dislivelli e fosse; di tanto in tanto qualche scheletro d'animale, carogne o resti parzialmente divorati da avvoltoi.

Una visione desolante, da inferno. Non s'era mai visto, e non si vide dopo, alcunché di tanto squallido.
La Via della Luna non sembrava percorribile, tranne in pochissimi punti del greto di torrenti e in vicine fettine di terreno, non sempre coltivato.
L'auto procedeva ancora più lentamente che nei funerali e più volte rabbiosi contadini uscivano infuriati dalle case minacciando l'autista costretto a fermarsi, uscire dall'auto e parlare con calma, in quell'incomprensibile idioma,fino a convincerli e poi, come per miracolo, si riprendeva il viaggio.

Temevano giustamente si calpestassero i loro minuscoli campicelli, i loro orti, la loro unica ricchezza, il risultato delle loro fatiche.

I tre viaggiatori erano stanchi, affamati, innervositi leggermente ammaccati in più parti dei loro corpi e disperavano ormai di partire con quel volo bisettimanale; ipotizzavano programmi alternativi, modifiche ai loro piani.

Era già pomeriggio inoltrato quando l'autista disse ai tre giovani che mancava poco, una quindicina di chilometri soltanto, per l'aeroporto; ancora un paio di chilometri e poi la strada sarebbe stata asfaltata aggiunse in inglese.

I tre erano più contenti; stavano infine per allontanarsi da quell'inferno, dal nome sbagliato e ingannevole, e le sofferenze e i timori sembravano alla fine.

Una dozzina circa di rivoltosi saltò fuori, non si sa da dove, all'improvviso, bloccò e circondò l'auto.

Fecero scendere di forza l'autista; i tre viaggiatori rimasero ai loro posti.

Quella sorta di banditi controllarono minuziosamente anche l'interno delle valigie, esaminarono i documenti, ogni cosa. Fu, poi, il turno dei passaporti dei tre giovani viaggiatori che vennero consegnati al comandante del gruppo.

Autista e comandante parlarono a lungo, sempre in quella lingua ignota al terzetto ormai sfinito, contrariato e avvilito.
Non si capiva alcunché e per almeno una ventina di minuti s'attese. Non accadde altro.

L'autista, ancora più scuro in viso, s'avvicinò infine all'auto e disse ai viaggiatori che i ribelli volevano i dollari per lasciarli andar via, altrimenti sarebbero rimasti dov'erano.

I tre avevano avuto il tempo per osservarli bene questi rivoltosi o banditi. Erano trasandati, con sguardi e visi induriti, scontrosi, rabbiosi, disperati, armati come per una guerra.

La situazione non era certo piacevole; alcuni dei rivoltosi tenevano le armi in pugno, non davano affatto l'impressione di voler scherzare.

Disagio, stanchezza e timori s'invasero dei tre giovani in maniera totale.

Due dei tre avrebbero dato non solo i dollari ma camicia e pure mutande pur di andar via immediatamente.

Il terzo, quello dagli occhi chiari, senza nemmeno un dubbio, uscì deciso e incurante dall'auto e andò a parlare col comandante.

Disse, con franchezza, in inglese: siamo qui da poco tempo, stiamo per lasciare questo paese, comprendiamo i motivi del vostro risentimento che ci sembra legittimo pur senza conoscere a fondo i vostri problemi, le vostre aspettative; viviamo di lavoro in un paese europeo, non siamo americani o ricchi e non abbiamo dollari da dare.

Parte di quanto sto dicendo trova conferma nei nostri passaporti, nell'uso di quest'automobile. Le chiedo di ridarci i passaporti e lasciarci andar via.

Quando il viaggiatore finì di parlare, mai interrotto dall'altro, il capo dei ribellilo guardò in viso, poi lo fissò brevemente, mise la mano in tasca, estrasse i passaporti; li restituì immediatamente al giovane che gli aveva parlato e che gli stava di fronte.

Si strinsero la mano salutandosi con rispetto, il viaggiatore dagli occhi chiari e il maturo comandante dei ribelli.

Si raggiunse l'aeroporto in pochi minuti, ancora in tempo per prendere quel volo che, vista la situazione, era stato più volte posticipato, in attesa dell'arrivo dei viaggiatori, quasi tutti con difficoltà e impedimenti.

L'autista, prima di congedarsi, manifestò la convinzione che il capo dei ribelli avesse restituito i passaporti vergognandosi d'ammettere, davanti ad uno straniero e ai suoi uomini, di non capire e di non conoscere nemmeno una sola parola d'inglese, ad eccezione forse del termine passaporto, similare in più lingue, comprensibile, già udito.

La verità non si potrà più conoscere; è passato troppo tempo. Il giovane dagli occhi chiari è ora anziano, con capelli bianchi ed ormai senza occhi; l'altro, il capo dei ribelli, chissà dov'è?, se c'è ancora.

Si sa solo che, almeno quella volta e, si crede, non solo quella volta, il giovane dagli occhi chiari ottenne quello che voleva: andar via subito da La Paz.

 

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