MORIRE O VIVERE


PAURA DELLA MORTE 



Il dentista di sempre, quello che non avrebbe mai consentito l'uso dei canini come apribottiglie, come fece quell'avoriano che conosceremo presto. Suo paziente da decenni, ormai quasi amici; di lui conosceva vita,morte e miracoli.

Era informato su matrimoni, divorzi e figli; del disadattamento della primogenita, delle difficoltà professionali dell'attuale e terza moglie, d'investimenti sbagliati in ristoranti e locali notturni, della passione per auto veloci e pittura figurativa, del fratello imprenditore edile, della villa sul mare, dell'ispezione della Guardia di Finanza e tante altre cose.

Dopo il curetage, come in francese chiamano in quello studio la periodica pulizia dei denti, il paziente lamentò difficoltà di masticazione per non poter più chiudere perfettamente l'arcata dentaria, dopo la sostituzione d'un vecchio ponte ad opera sempre dell'amico dentista.

Controllò scrupolosamente, anche con foglietti sottilissimi di seta colorante, e sentenziò che tutto era in perfetto ordine.
Quel fastidio era da addebitare a temporaneo nervosismo e, forse, ad un impercettibile spostamento in avanti dei canini superiori, come precisò.

Non convinse. Il paziente, pensò a suoi limiti e a quelli generali dell'odontoiatria; non trovò argomenti scientifici per controbattere e decise di farlo notare, ironicamente.

Per tranquillizzare il paziente, il dentista aveva anche aggiunto che denti, gengive, ossatura e il resto erano in lui sani, forti e resistenti come prima di quel ponte.

Il paziente manifestò consapevolezza e gratitudine per quella condizione soddisfacente dei suoi denti, eccetera, aggiungendo ch'era sua intenzione conservare in quello stato dentatura, gengive e ossatura fino alla morte, essendo suo desiderio consegnare a chi avrebbe proceduto alla cremazione del suo cadavere (aveva già disposto in tal senso) un corpo sano e robusto come acciaio, possibilmente in tutte le sue parti.

Inoltre voleva creare vita difficile a fuoco e fiamme che avrebbero aggredito e avvolto il suo corpo, il suo volto e la sua bocca, subito dopo la sua dipartita.

La descrizione fu dettagliata, puntigliosa, quasi volutamente macabra. Mortificato, il dentista, mise le mani alle guance, poi fra i capelli, impallidendo e arrossendo subito dopo.

Era a disagio, in preda a qualcosa d'indefinibile.

Con quella sua vita piena come un voluminoso romanzo, non aveva modo o tempo di pensare a quell'evento, alla fine della vita o semplicemente alla morte.

Quella del paziente, la sua, la morte di qualsiasi individuo, la morte e basta erano temi da non affrontare, da non prendere in considerazione per lui.

Non usava e non ricordava d'aver mai udito nemmeno la parola, tranne, forse, nel periodo universitario e di cui s'era immediatamente dimenticato.

Fissando con occhi vuoti quel paziente, riuscì a dire lentamente: Come può pensare alla morte? È ancora così giovane! Io non potrei farlo, non ci penso mai; avrei terrore, non posso immaginare che ...

Volendo rassicurarlo, appena dispiaciuto per aver forse esagerato, il paziente disse al medico ed alla bella infermiera che l'assisteva: Desidero vivere e a lungo, come spero, proponendomi di fare ancora tante cose; tuttavia, non temo la morte. Posso parlarne e, se ciò accadesse, non avrei paura di morire anche in questo preciso istante.

Dentista, infermiera e paziente parlarono d'altro, fecero quello che dovevano, non pensarono più a quella parentesi di morte.

Il dentista e, probabilmente, quasi tutti noi temiamo la fine della vita; allontaniamo o rimuoviamo l'idea della morte pensando unicamente a tuffarci nel vivere, ricercando il soddisfacimento dei bisogni e manifestando incapacità a provare sentimenti profondi e paura della pur minima sofferenza e del dolore.

La morte è l'epilogo della vita; ogni giorno dopo quello di nascita è parte del percorso verso quella meta, quell'appuntamento cui nessuno può mancare e che ha il grande pregio di livellare e accomunare tutti.

Rende eguali vinti e vincitori, esseri felici e infelici, poveri e ricchi, potenti e sottomessi, barboni e premi Nobel, belli e brutti, grossi e magri, santi e diavoli, personaggi del club di Tangentopoli con quelli di Mani Pulite, Asini e Muli, Strabici e Cretini, Marcantoni e Pancotti, primi attori e comparse, secondi attori e fantasmi e via di seguito.

Forse, si potrebbe proporre il divieto, per legge, d'inserire la parola nei dizionari e in qualsiasi altro testo; proibire di pronunciare o scrivere il termine con qualsiasi mezzo e, sempre per legge far obbligo a tutti di strappare le pagine di dizionari o libri, già editi e in circolazione, includenti quella parola. Dentista e tanti altri sarebbero felici.

Frettolosi funerali, nessun segno di lutto e il veloce ritorno alle attività abituali anche dei più stretti congiunti confermano il marcato rifiuto dell'idea della morte, oggi.

Di certo, quel memento mori dei trappisti era ed è, come non mai, lugubre.

Ma il punto non è questo; il punto è che quell'ineluttabile ora x arriva per tutti. Dunque, è inutile temere, fingere di dimenticare e, se ci si riesce, rimuovere del tutto l'idea della fine.

E, poi, giova angosciarsi all'idea della morte?

Vivere in armonia con il prossimo e con se stessi, con quello che ci circonda, e, soprattutto, attribuire senso e valore ad ogni frazione, pur piccolissima, della nostra esistenza sono elementi essenziali per allontanare la paura ingiustificabile o eccessiva della morte.

L'alternativa è di convertirsi a religioni che ammettono la reincarnazione. Una soluzione probabile per i vili?
La fretta vendicativa di Asino, certo che nell'esistenza successiva sarebbe vissuto da elemento del mondo minerale senza memoria, era dovuta all'incrollabile fede nella reincarnazione, nell'induismo.

Di induismo o di altre dottrine che ammettono la reincarnazione non s'erano mai interessati, forse solo per pigrizia, Strabico, Cretino e Mulo.

Ipoteticamente, si può quindi immaginare che, se si fossero convertiti, si sarebbero reincarnati in vite successive in: avvoltoio, con becco, ali e zampe amputate per quanto concerne Strabico; escrementi di mucca, essiccati al sole e poi bruciati quale combustibile da poveri, laboriosi e onesti contadini per Cretino; lumaca con palazzo sempre incollato al corpo (una sorta di camper), e due enormi protuberanze sulla testa, quasi due antenne, per Mulo, in ricordo dell'edificio da lui voluto e dell'attività, invero indefessa, di Cavalla, sua gentile consorte nonché ambasciatrice o presentatrice; non si sa!
Marcantonio, per fede politica, non avrebbe mai e poi mai creduto nella reincarnazione; solo per non trascurarlo o trattarlo diversamente dagli altri s'immagina che sarebbe vissuto, nella vita successiva, come l' Unkraut dei tedeschi, quell'erbaccia cattiva che non muore mai (o quasi).

Usare abbondante benzina (o, anche, petrolio) e, poi, bruciare con cura. Anche a quell'Unkraut si sarebbe così data la meritata soluzione finale.

Quel secondo attoruccio, un po' ignorantello o primitivo, espressione e risultato della foresta, non sapeva nemmeno che Schopenhauer paragonava la morte al tramonto del sole in un determinato luogo cui, contemporaneamente, corrispondeva il sorgere del sole in altro luogo.

Un prim'attore, informato, sapeva che il sole stava per manifestarsi in tutto il suo splendore, a prescindere da qualsivoglia recita, comparsa o fantasma e che la sua vita sarebbe stata piena e felice, come sempre.

Anche quell'approssimativo caprone con fioraia s'era dato all'epicureismo e viveva da gaudente ripetendo col grande Maestro: Quando ci siamo noi, la morte non c'è; quando c'è la morte, noi non ci siamo.

Tutto così elementare per lui!

Senza far ricorso a filosofi e teologi, la morte può essere considerata parte integrante della vita anche perché ne è l'epilogo e possibilità costantemente presente nell'esistenza.

Una tale consapevolezza non toglie la gioia - non tanto il piacere - di esprimere se stessi, la propria personalità, la propria creatività e d'immaginare il proprio futuro, pieno di scopi inseguiti e, forse, raggiungibili con tenacia e lavoro, con l'accettazione dei propri limiti, della competizione insita nell'operato umano, anche di chi scrive o dipinge e attribuisce pienezza ad ogni attimo della propria esistenza, non s'aspetta alcunché e non teme la morte.


 

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